Cosa spinge le persone, da sempre, a ritagliarsi uno spazio dove le regole della realtà si sospendono? Johan Huizinga, storico e teorico olandese, con Homo Ludens (1938), intuì che l’uomo, oltre a essere un essere razionale (Homo Sapiens) e faber (Homo Faber), è anche un essere ludico, che crea cultura attraverso l’esperienza del “come se”.
Per Huizinga, il come se non è una fuga priva di senso, ma un terreno fertile dove l’individuo sperimenta identità, relazioni e valori che, proprio grazie alla loro distanza dalla realtà, rivelano la realtà stessa. I rituali, le competizioni sportive, le rappresentazioni teatrali, persino i sistemi giuridici e le religioni, secondo Huizinga, nascono dall’impulso dell’uomo a creare spazi simbolici in cui vivere esperienze significative in modo libero, regolato e condiviso.
Vent’anni dopo, Roger Caillois in I giochi e gli uomini (1958) riprese e approfondì questo concetto, classificando le forme di evasione e finzione in quattro categorie:
- Agon (competizione),
- Alea (caso),
- Mimicry (imitazione, finzione),
- Ilinx (vertigine, destabilizzazione).
Per Caillois, queste forme rappresentano una parentesi ordinata che interrompe la rigidità della quotidianità, creando un rituale di sospensione che, paradossalmente, rassicura. L’uomo, scegliendo di vivere esperienze regolamentate ma finzionali, scopre la libertà dentro confini autoimposti, riconnettendosi al bisogno ancestrale di esplorare e sperimentare.
Passatempi moderni: i nuovi mondi del “come se”
Nell’era digitale, il “come se” si è trasformato in pixel, schermi e connessioni continue. Il gaming online, i social interattivi, gli spettacoli live interattivi e gli show game come Crazy Time Italia incarnano una nuova forma di evasione, in cui l’uomo entra ed esce da mondi alternativi con un semplice tocco sullo schermo.
Ma ciò che appare come un “gioco” (in senso ampio) oggi è spesso strettamente legato a logiche di consumo e di engagement costante, alimentate da algoritmi che spingono a restare connessi, a competere o a inseguire ricompense virtuali. Huizinga e Caillois riconoscerebbero ancora questi ambienti come spazi del “come se”?
Da un lato, sì: ogni volta che entriamo in un’arena online, accettiamo regole diverse, abbandoniamo per un attimo le urgenze quotidiane, viviamo un’esperienza altra, che mantiene viva la tensione creativa dell’esistenza. Dall’altro lato, la linea tra tempo libero e consumo si è fatta sottile: ciò che un tempo era spazio di libertà oggi rischia di diventare spazio di dipendenza.
Eppure, anche tra pixel e premi virtuali, la ricerca del “come se” non muore, ma si adatta, trasformandosi in brevi momenti di esplorazione, identità temporanee, spazi dove il rischio e la casualità (alea) convivono con la competizione (agon) e con l’illusione (mimicry).
La poesia del “come se” nella nostra epoca
In questa analisi, la poesia diventa chiave di lettura: come il gioco, anche la poesia crea una sospensione, un varco verso una realtà altra. “Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume”, scriveva Borges, e in questo fluire il verso diventa spazio di libertà.
La poesia, come i passatempi moderni, trasforma il quotidiano in esperienza simbolica. I versi spezzano la prosa, come il “come se” spezza la realtà: “Entriamo in un verso che ci accoglie, ci avvolge e ci consente di esplorare chi siamo e cosa desideriamo”, potremmo dire parafrasando Huizinga.
Nell’epoca degli smartphone e delle notifiche continue, ritagliarsi un tempo sospeso, che sia un libro di poesie o un’arena virtuale, significa difendere la propria umanità. È qui che la riflessione di Huizinga e Caillois conserva valore: ci ricorda che l’uomo ha bisogno di varcare la soglia del “come se” per vivere pienamente, purché sappia tornare arricchito e non svuotato.
Vale ancora la lezione dei maestri?
Sì, ma con un avvertimento: il “come se” contemporaneo non è più neutro, spesso è governato da logiche che ne minano la libertà originaria. Se Huizinga vedeva nella finzione un atto di cultura e Caillois un rituale di libertà ordinata, oggi siamo chiamati a chiederci se i nostri passatempi siano davvero luoghi di scoperta o solo anestetici del presente.
Il mondo del “come se” resta una delle chiavi per vivere meglio, ma solo se usato con consapevolezza: un luogo dove impariamo a perderci per ritrovarci, a rischiare per crescere, a immergerci per tornare diversi. Tra una poesia, un libro, un viaggio, una competizione sportiva o persino un’esperienza online, l’essenza non cambia: cerchiamo un varco verso noi stessi, verso ciò che la realtà spesso ci nasconde.
Perché, come scriveva Rilke, “Poiché qui tutto ci pare fatto per scomparire, vogliamo tenerlo in mano, tenerlo a noi”. E il “come se”, sia esso poesia o passaggio in un mondo digitale, resta una delle più potenti mani che abbiamo per afferrare la vita.